Il meglio di IFN
“In Italia spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi”
Inopportuna e infelice, la frase del Ministro si presta però a qualche considerazione
Mentre le mense per i poveri faticano a sostenere la pressione delle richieste e l’inflazione sull’alimentare è quasi doppia rispetto a quella complessiva, la “sparata” di Francesco Lollobrigida al Meeting di Rimini sulle opportunità alimentari “interclassiste” del nostro paese rispetto agli Stati Uniti non poteva che scatenare un putiferio politico e mediatico.
Anche le argomentazioni addotte per evidenziare come i poveri in Italia riescano a garantirsi cibi di qualità a basso prezzo tramite l’acquisto diretto dal produttore non paiono convincenti. Se, infatti, penso a prodotti della terra che non richiedono trasformazioni, come l’ortofrutta fresca, per cui sono potenzialmente acquistabili in ogni azienda agricola che li realizza, le ricerche del Monitor Ortofrutta di Agroter posizionano nell’intorno del 5% del mercato complessivo le vendite dirette degli agricoltori (anche attraverso farmer’s market), figuriamoci per i trasformati. In realtà sono più le persone con tanto tempo libero a disposizione e/o quelle che risiedono in aree a vocazione ortofrutticola a beneficiare di questa opportunità rispetto ai meno abbienti.
Per quanto infelice, la frase del ministro può però portare a fare qualche ragionamento di prospettiva sull’accesso al cibo di qualità nel nostro paese a prezzi popolari. Faccio qualche piccolo esempio per il nostro comparto.
Oggi la scorciatoia prioritaria per l’assunzione della vitamina C è l’integratore, perché comodo, pratico e anche poco costoso. Una minoranza di italiani si fa una spremuta fresca in via continuativa nel periodo invernale perché costa anche più di tre euro al bar e circa un euro a casa; questo favorisce l’integratore, poiché la dose giornaliera costa meno di un euro, anche se nell’ascorbato di sodio che ingeriamo con l'integratore, il principio attivo (l'acido ascorbico) è molto meno assorbibile rispetto a quello contenuto nell’arancia spremuta, come raccontava il prof. Veronesi.
Caro ministro, in alternativa si potrebbe pensare a una politica di comparto che identifichi norme di qualità per il prodotto solo idoneo alla spremuta che superino l’attuale normativa – oramai anacronistica - e, su queste, si calmieri il prezzo per diffondere questa “buona pratica” fra i nostri connazionali, partendo proprio da quelli che oggi non possono permettersela (con un aiuto ulteriore a chi impiega la Carta risparmio spese?) , per arrivare a chi preferisce una comodità, come l'integratore, di prezzo e qualità però inferiore.Considerando che per fare 200 ml di spremuta ci vogliono fra 2 e 5 arance in rapporto al calibro, pensi all’impatto su 60 milioni di persone e sui benefici che questa “opportunità interclassista” potrebbe generare non solo su produttori e consumatori ma anche sulle spese sanitarie.
Concludo, sempre solo a titolo di piccolo esempio, con la “cinghiatura” delle pere, ovvero quell’alterazione causata da freddo tardivo, che si manifesta con la presenza di un anello rugginoso localizzato nella fascia equatoriale del frutto. Non è bella da vedere ma sarà frequente in questa campagna perché molto diffusa a causa delle gelate, per cui – qua e là – troveremo frutti con questo difetto anche se dovrebbero essere declassati. E se, anziché mescolarli, provassimo a farne un prodotto di accesso al mercato per i meno abbienti, qualificandoli in quest’ottica? Visto che la qualità organolettica di solito non cambia per questo inconveniente, non sarebbe una vera “opportunità interclassista” per avvicinare a un prodotto tanto amato quanto di élite per i prezzi spesso proibitivi?
Ma anche qui servirebbe una regia di comparto, poiché non si può lasciare il tema solo alla libera iniziativa, regia che dovrebbe riguardare più in generale una nuova classificazione della qualità che faciliti l’accesso a prodotti di buone caratteristiche alimentari e, parimenti, che la segmenti verso l’alto su elementi edonistici (dolcezza, bouquet) e immateriali (origine, marca), utilizzando con profitto proprio la naturale eterogeneità, non solo dell’ortofrutta, ma di molte produzioni agricole. Non potremmo lo stesso dire che i poveri mangiano meglio dei ricchi ma, almeno, che mangiano bene.