Costi di produzione, il rimedio (inefficace) dei rimedi

Per l’ennesima volta spuntano dal cilindro come soluzione ai rapporti di filiera

Costi di produzione, il rimedio (inefficace) dei rimedi

Quando non si sa più a che santo votarsi per risolvere le tensioni lungo la filiera dei prodotti ortofrutticoli, immancabilmente – come per incanto – si palesa il rimedio del rispetto dei costi di produzione sostenuti dai produttori.

Purtroppo, vi anticipo, che al di là dei buoni propositi, la soluzione non può funzionare se non in situazioni particolari. Peraltro, una soluzione più semplice e lineare al problema l’ha indicata Milena Gabanelli nell’articolo uscito ieri sul Corriere della Sera, quando scrive: “ …. Per ridurla (la lunghezza della filiera ndr) i produttori dovrebbero essere meno frammentati e aggregarsi fra loro, conquistando così maggior potere contrattuale. Lo hanno fatto i piccoli produttori della Val di Non: si sono consorziati e il prezzo di vendita alla Gdo lo decidono loro”.

Purtroppo, cara Milena, non è proprio così ma è vero che così sono riusciti a vendere, almeno da quando li conosco, dal lontano 1997, sempre ben oltre il costo di produzione. Vi consiglio comunque di leggere tutto l’articolo. Capirete quanto sia difficile anche per una giornalista dello spessore della Gabanelli entrare nel merito di fatti tecnici complessi, dove il verosimile è molto lontano dal vero, ma nella sostanza ha ragione, la soluzione è solo una: aggregare per avere masse critiche e distintività (dove possibile) in grado di gestire il mercato.

Per tornare al tema del giorno, la terapia del rispetto dei costi di produzione è stata attenzionata anche da alcuni provvedimenti legislativi, come il famoso art. 62 e, più recentemente, la Direttiva UE sulle pratiche sleali, poi recepita anche dal nostro ordinamento, senza però che a oggi lo strumento abbia avuto una concreta applicazione.

È anche vero che in Francia è tornato in auge in questi tempi ma è altrettanto vero che sono più di dieci anni che a spizzichi e bocconi appare e scompare anche oltralpe, comunque senza convincere. Viene da chiedersi perché. È un problema della inadeguatezza dello strumento allo scopo o è la complessità e l’imperizia nell’applicazione? Oppure entrambe? Proviamo a ragionarci insieme.

In teoria, un riferimento al costo di produzione di un bene per sapere a che prezzo può essere venduto da un’impresa senza perderci può avere un senso per beni primari di cui non possiamo fare a meno. Se le imprese che li producono hanno poco potere di mercato, rischiano infatti di essere schiacciate dagli acquirenti, che trattengono gran parte del valore aggiunto generato, compromettendo la fase a monte, con il rischio che non sia più in grado di produrlo. Su questo si basa il ragionamento di chi vorrebbe il prezzo pagato dalla distribuzione ai produttori legato al costo di produzione.

Ci sono, però, alcune complicazioni di cui tenere conto anche a livello teorico. La prima attiene alla quantità disponibile del bene. Se è superiore alla domanda, una parte non troverebbe collocazione alle condizioni individuate e dovrebbe essere distrutta o riqualificata. Per beni, come alcuni ortofrutticoli, la cui quantità disponibile varia in modo imprevedibile da un giorno all’altro, questo costituisce un primo enorme problema di non facile soluzione. In condizioni di eccesso di offerta, a parità di prezzo pagato, chi vende e chi butta? Corollario e situazione limite di questa prima criticità è quando del bene non vi è proprio domanda, chi paga?

La seconda attiene alla qualità merceologica dell’offerta. Se standardizzata, con poche variabili, come per il latte alimentare o il grano, senza bisogno di pensare ai bulloni, il gioco è semplice; se, invece, richiede l’intelligenza artificiale solo per comporre le variabili in gioco, come accade, solo per fare due esempi calzanti, nel caso di mele e pomodori, la situazione rende praticamente impossibile allo stato attuale addentrarsi sui costi di ciascuna delle qualità merceologiche in gioco. Ricordo che per definire all’ingrosso il prezzo di una mela occorre sapere: varietà (con, in alcuni casi, i relativi cloni), origine, calibro, qualità merceologica secondo le norme di qualità UE, marca; a cui andrebbe aggiunto almeno il costo della confezione e del confezionamento, inclusi eventuali bollini. Tralascio i maggiori costi per rispettare gli standard di certificazione richiesti o proposti (dal bio al Grasp, dal disciplinare delle Mdd al residuo 0, ecc.) o il maggior valore sul mercato legato a una marca.

Come si fa a sapere il costo di produzione di una mela Golden 80-85 della Val di Non, di prima qualità, confezionata in padella monostrato 40x60 in cartone ondulato, con bollino Melinda? È impossibile, perché anche sapessimo quanto costano selezione in magazzino, confezionamento e bollinatura, costi di marketing, commerciali e spese generali del Consorzio Melinda, non potremmo in ogni caso sapere il costo della mela nuda poiché, in realtà, anche il Consorzio detrae i costi prima indicati dal prezzo che ricava dal mercato, per liquidare il valore rimanente al produttore. Questo è il valore di quella mela, che non è legato direttamente al costo di produzione.

È qui, infatti, che casca l’asino. Il produttore ha costi per coltivare le mele che, con approssimazione, possiamo identificare al massimo per ettaro (poiché in realtà dipendono anche dalla tipologia dell’azienda e, cambiandola, variano a ettaro anche in modo importante). Per quanto sia bravo, quell’agricoltore farà sempre un po’ di prodotto da industria che non ha le caratteristiche per andare nel mercato del fresco, una quota – di solito superiore a quella di prima - di prodotto di seconda qualità, che va bene solo per certi mercati e, mi auguro per lui, la maggior parte di prodotto di prima qualità, fra cui rientra quello di cui prima si parlava. Seconda e prima qualità saranno poi divise per calibri. Una ripartizione a monte del costo per le diverse qualità commerciali è possibile ma solo a tavolino e non troverà mai un minimo comun denominatore se parliamo di diverse imprese. Chi fa più seconda, chi fa più calibri grandi, ecc..

Potrei continuare a tediarvi sulla complessità di questa strada per regolare i rapporti di filiera ma credo che quanto esposto sia già sufficiente, per cui la via maestra resta l’aggregazione. I costi di produzione, però, possono servire. Ma non a questo. Ne riparleremo a breve.