L’ortofrutta italiana è senza futuro, a meno che ….

Clima, costi e distribuzione sono affrontabili solo con un cambio dei paradigmi alla produzione

L’ortofrutta italiana è senza futuro, a meno che ….

Mentre il Presidente di Centromarca, Francesco Mutti, all'Assemblea annuale dell'associazione ha ammesso che le insufficienti dimensioni imprenditoriali della nostra industria alimentare la pongono a serio rischio nel mercato internazionale di domani (il suo Gruppo ha fatturato nel 2023 oltre 650 milioni di euro, in crescita del 18%, di cui più del 50% all’estero, ndr) e, nel contempo, sia Conad che Selex hanno annunciato di aver superato i 20 miliardi di Euro di fatturato lo scorso anno, raddoppiando le prestazioni in poco più di un decennio, il primo (per maggiori informazioni clicca qui)  e, addirittura, in meno di dieci anni il secondo (per maggior informazioni clicca qui), l’ortofrutta italiana sonnecchia con le sue piccole imprese, in uno scenario competitivo da brivido anche per chi è molto più strutturato.

Dopo l’operazione Apot-Melinda-Trentina del 2018 e la successiva nascita di UNAPera nel 2021, nello scenario delle aggregazione rilevanti – leggi che hanno un peso sul mercato – tutto tace. Drupacee, kiwi, IV gamma ma anche arance e clementine o meloni, nessuno batte un colpo, come si dice, almeno sul fronte dell’assetto organizzativo, perché, invece, sulla situazione complessiva, le lamentele degli attori della filiera non mancano e sono all’ordine del giorno.

Il primo imputato è il clima, su cui – però – attivamente non si può intervenire nel breve se non si hanno relazioni ‘alquanto altolocate’. Si potrebbe però lavorare per proteggersi; gli strumenti non mancano – serre, coperture, reti, ventoloni, ecc. - ma è molto costoso e le nostre imprese agricole non hanno risorse finanziarie adeguate e, nel contempo, quelle pubbliche scarseggiano sempre più e arrivano di solito ‘a babbo morto’. Di denaro fresco da investire nella green economy ce n'è invece in abbondanza, il caso dei fondi d’investimento nell’agrumicoltura spagnola è eclatante (per maggiori informazioni leggi qui). 
Alla pericoltura emiliano romagnola, per esempio, servono almeno 50 milioni di euro per far fronte a brevissimo ai cataclismi che l’hanno colpita nella stagione precedente e fra 50 e 70 milioni di euro all’anno per rilanciarsi in un orizzonte quinquennale. Il progetto è affascinante e ha anche concrete possibilità di riuscita ma per ora ci sono solo 18 milioni, e per di più sulla carta, per i ristori e tutto il resto è da costruire. Potrebbe entrare in gioco la finanza? Certamente, ma servirebbe un soggetto giuridicamente rilevante della produzione con cui rapportarsi, non una società consortile come UNAPera che può rappresentarla adeguatamente solo sul fronte commerciale. 

Ci sono poi i mezzi tecnici, sempre più costosi e non sempre disponibili, vuoi per qualche guerra che scoppia qua e là e taglia le forniture, vuoi per qualche regolamento europeo che confonde l’utopia con la sostenibilità e mette al bando presidi fitosanitari indispensabili prima di aver trovato i sostituti. Un po’ come se domattina, e non nel 2035, fossero messi al bando i motori endotermici. Anche qui la risposta ci sarebbe, ma servirebbero imprese rilevanti in grado di finanziare e fare ricerca autonomamente e non di comprare quella realizzata da altri, sempre che ve ne sia. Zespri, il primo produttore mondiale di kiwi, mette sul piatto due milioni di dollari all’anno solo per finanziare la propria ricerca indirizzata alla sostenibilità, ma può fare questo investimento perché fattura oltre due miliardi di euro. Alla ricerca andrebbero poi affiancati sistemi organizzati capaci di far valere le proprie ragioni nelle sedi opportune. I trattori in giro per l’Europa hanno mostrato solo il potenziale degli agricoltori che si fanno sentire, per invertire la tendenza ambientalista del New Deal di Bruxelles serve ben altro e con continuità.

Infine, il terzo spauracchio è la distribuzione, accusata di tenere per sè gran parte del valore aggiunto generato lungo la filiera impoverendo ulteriormente un mondo ortofrutticolo già allo stremo. Vedendo la progressione dei grandi gruppi in termini di aggregazione e concentrazione, di fronte a un mercato al dettaglio che cresce solo per effetti inflattivi, la situazione è certo destinata a peggiorare e non a migliorare anche in Italia. Sempre meno acquirenti, sempre più forti e strutturati. Anche qui i correttivi sulla carta esistono sia a livello normativo – vedi la direttiva sulle pratiche sleali – sia a livello del governo dell’offerta nella fase alla produzione, ma servirebbero nuove aggregazioni rilevanti come APOT e UNAPera in grado di “dialogare” con la Gdo per definire le strategie di mercato. Senza queste è spesso l’offerta, quando fuori equilibrio, e non la domanda a far tracollare i mercati.

Lo dico forse da troppo tempo, ma sono sempre più convinto che senza aggregazioni rilevanti la nostra ortofrutta non avrà il futuro che merita e, di fronte a un orizzonte sempre più minaccioso, comincia anche a rischiare di non avere un futuro. Una soluzione ci sarebbe ma, come ricorda un mio amico, parafrasando Walt Disney, servirebbe credere che “se lo puoi sognare lo puoi fare”. Ma di sognare pare che nessuno abbia più voglia.