Dopo la distruzione, è ora di “progettare” la ricostruzione

Il sistema ortofrutticolo emiliano-romagnolo va ripensato. Questa disgrazia ce ne dà l’opportunità

Dopo la distruzione, è ora di “progettare” la ricostruzione

Non mi dilungo nella ricerca delle cause e delle responsabilità di quanto è successo in Romagna nei giorni scorsi. Sono state già riempite fin troppo pagine di giornali e palinsesti televisivi anche se, credo, inutilmente, poiché dal novembre del 1951 – dopo il disastro del Polesine – siamo ancora nella situazione attuale, pur avendo avuto – nel frattempo – almeno una trentina di eventi che hanno portato - come questo - a più di 10 morti. 

Si è trattato certamente di un evento straordinario per tutti i motivi che abbiamo imparato dai mezzi d’informazione, certo non arginabile – perdonate il doppio senso – completamente. Però, da qui a continuare a costruire – anche in tempi recentissimi - qualche metro al di sotto del letto dei fiumi, ne passa. Anche se la cosa più grave mi pare, con gli strumenti di previsione odierni, il non essere riusciti ad evacuare preventivamente la popolazione dalle zone pericolose. Ma lascio ad altri, più competenti e pertinenti di me, questi temi per provare, invece, a dare un piccolo contributo su qualcosa che mi è più familiare.

Mi riferisco a come impostare il processo di ricostruzione dell’ortofrutticoltura romagnola dopo la distruzione dei giorni scorsi, perché quest’ultima non soffrirà solo di mancanza di produzione per questa stagione ma dovrà ricostruire gran parte delle sue serre e dei suoi impianti orticoli oltreché quelli di drupacee e kiwi, colpiti dall’asfissia radicale, senza parlare delle pere, già decimate anche da altre problematiche. L’operazione potrà avvenire solo grazie a una massiccia iniezione di risorse straordinarie a fondo perduto e agevolate ma, se non verrà progettata adeguatamente, rischia di non produrre buoni risultati poiché, in primis, deve essere in grado anche di porre rimedio ai mali strutturali del sistema. 

La parola “emergenza” e la conseguente “fretta” che si porta dietro sono il pericolo maggiore. Non fraintendete, i ristori dovranno essere immediati, per garantire agli agricoltori di non abbandonare il territorio ma andranno accompagnati da una progettazione della ricostruzione che elimini le attuali criticità, alcune mortali, anche senza alluvione. Nessuno avrebbe voluto sistemare le cose in questo modo ma, forse, questa sventura potrà portare un piccolo contributo positivo per riorganizzare dalle basi in modo corretto un’ortofrutticoltura già molto sofferente.

Sul piano frutticolo, solo per fare un esempio, anziché sostituire gli attuali impianti con analoghi, lasciando ai singoli libera iniziativa, a mio avviso potrebbe essere questa l’occasione di orientare davvero scelte varietali verso una razionalizzazione dell’esistente (salvo che per le pere abbiamo troppe varietà per ogni altro fruttifero), accompagnando questo con portainnesti e forme di allevamento più resilienti degli attuali ai cambiamenti climatici. Che dire, poi, dei modelli organizzativi? Dovremmo razionalizzare anche le strutture a fronte di produzioni in tendenziale contrazione per almeno un quinquennio. Che sia la volta buona per immaginare anche UNAPesca, UNAKiwi e tanti altri?

Non mi piacciono i “tavoli” di lavoro, di solito inconcludenti e dispersivi, ma – in questo caso - un tavolo tecnico di concertazione che definisca - in modo vincolante per ricevere contributi - come ricostruire, potrebbe davvero essere una buona idea. Servirà tempo per avere la disponibilità delle risorse necessarie, diverse centinaia di milioni di euro per almeno un triennio dalle prime stime, mentre mi auguro che la macchina pubblica riesca a far arrivare i ristori subito. Per la ricostruzione c’è dunque il tempo per progettare e concertare la rinascita. Se fatta bene potrebbe dare un minimo senso anche a uno scempio come quello che è successo.