Economia
Uva da tavola, non solo cattive notizie
Dati di import-export e produttivi positivi, crepe nei consumi
L’uva da tavola sta vivendo una campagna commerciale fra le peggiori mai viste, tanto che alcuni operatori l’hanno chiamata il “grande malato” di questo autunno. Tutto ad un tratto sembra che il consumatore italiano si sia disaffezionato ad un prodotto che rimane uno dei capisaldi del Made In Italy ortofrutticolo nel mondo, tanto da essere il frutto più esportato dopo le mele.
Per provare a tracciare un quadro della situazione - andando oltre il commento emotivo degli operatori - abbiamo messo in fila alcuni dati per avere una analisi oggettiva del momento. E le sorprese non mancano.
Partendo proprio dai dati di import export, nel 2021 l’Italia ha esportato 457 mila tonnellate d’uva per un valore di 729 milioni di euro, un dato in calo dell’8% a volume e del 3% a valore rispetto a 5 anni fa, ma con un euro/chilo generato superiore del 5%. In questo quinquiennio vi sono state annate particolarmente negative come il 2018 e 2019, che hanno visto un tracollo dei volumi e dei prezzi, ma nell’ultimo biennio c’è stata una ripresa. Chiaramente mancano i dati del 2022, che probabilmente non saranno positivi, ma possiamo sintetizzare che nell’ultimo periodo l’export non ha tradito gli operatori italiani.
Anche dal punto di vista dell’importazione non ci sono brutte notizie: mediamente importiamo all’anno 20 mila tonnellate per un valore di poco superiore a 40 milioni, ed un trend in calo negli ultimi anni. Quindi la concorrenza straniera c’è, ma non da fastidio (per lo meno sul mercato nazionale).
Veniamo ai dati produttivi. In questo caso è difficile dare un giudizio preciso in quanto ci sono forti perplessità sui dati ufficiali Istat, soprattutto per quanto riguarda la Sicilia. Infatti, secondo l’Istituto Nazionale di statistica, nelle province di Catania, Caltanisetta e Ragusa, dal 2017 al 2022, le superfici e le tonnellate prodotte non cambiano di una virgola. Decisamente inverosimile. Da questi numeri si vede la necessità di avere un catasto frutticolo che almeno una volta nella vita ci dia una fotografia reale di quella che è la produzione in campagna.
Ma tralasciamo le polemiche e continuiamo con i numeri, la superficie totale complessiva negli ultimi anni è diminuita, ma in modo lieve e di pochi punti percentuali. Quindi non c’è (ancora) stato un tracollo.
Se i dati di import-export e produttivi, al 2021, sono tutto sommato positivi, dall’analisi dei consumi in GDO nell’ultimo biennio emergono le crepe. I dati IRI relativi ai consumi in Iper+Super fra il 2021 e 2020, evidenziano un calo del 7% a volume e del 2% a valore. Se splittiamo fra sfuso e confezionato, notiamo come ci sia stato un tracollo del prodotto sfuso con una perdita di 14 punti a volume e 12 a valore. Viceversa, il confezionato, corre soprattutto a valore (+15%) e meno a volume (+6%), trainato dalla performance dell’uva senza semi che guadagna quasi il 20% a volume e ben il 28% a valore.
I dati sono inequivocabili, il consumatore si sta spostando sempre di più verso l’uva senza semi, soprattutto se quest’ultima presenta caratteristiche di colore e pezzatura simili alla classica uva da tavola coi semi. Non è un caso se una delle varietà seedless più pregiate come Autumn Crisp sia inserita nelle linee Mdd premium di alcune importanti realtà della GDO (ovviamente confezionata) e macini numeri sempre più significativi.
Questo sancisce la fine della varietà Italia? Probabilmente non ancora, ma più che accanirsi su una varietà che sta mostrando i segni del tempo, non sarebbe meglio sforzarsi di trovare una nuova “Italia”, senza semi?
(Nella foto di apertura la festa dell'uva in un punto vendita Dem Supermercati)