Dazi, per l’ortofrutta italiana il bicchiere è mezzo pieno

Va molto peggio al vino. È l’occasione per ripensare anche il ruolo del mercato interno

Dazi, per l’ortofrutta italiana il bicchiere è mezzo pieno

So che può sembrare fuori luogo e che mal comune non è detto che sia proprio mezzo gaudio, ma non è per nulla certo che la politica internazionale di ‘The Donald’ sia per l’ortofrutta italiana quello tsunami che ci potrebbe aspettare; o, almeno, è la mia visione ottimistica, visto il predominante pessimismo che aleggia in questi giorni.

Infatti, se il nuovo corso dei dazi ‘un tanto al braccio’ dell’amministrazione Trump a favore di America First produrrà inevitabilmente, almeno nel breve periodo, una depressione dell’economia mondiale anche solo per gli effetti psicologici che genera, con riflessi su ogni ambito della vita sociale, dai consumi alla finanza, è però altrettanto vero che l'essere modesti esportatori di ortofrutta potrà avere qualche vantaggio per noi. Se non altro perché inviamo negli USA appena il 4 per mille del nostro export di ortofrutta, poco più di sedicimila tonnellate, mentre va decisamente peggio per il vino italiano, dove il mercato americano rappresenta il 24% del totale venduto fuori dai confini nazionali e, fino a oggi, è stato in progressiva crescita.

Se, come pare, la prima reazione ai dazi non sarà negoziale ma ritorsiva e in ordine sparso da gran parte degli Stati colpiti dalla scure del Tycoon, si potrebbero aprire nuove opportunità in tutti quei paesi dove l’ortofrutta americana viene esportata con prodotti simili a quelli su cui abbiamo qualche rilevanza anche noi fuori dai confini nazionali, come uva, mele, drupacee, kiwi e pere; con opzioni sui paesi più colpiti dall’inasprimento dei dazi, a partire da Canada e Messico, o in quelli dove siamo già in competizione con gli americani, come l’India, per esempio. Va inoltre ricordato che importiamo frutta secca dagli Usa per quasi 400 milioni di euro; se anche l’UE applicherà tariffe ritorsive agli USA, questi prodotti saranno meno competitivi e si aprirà la strada ad altre origini, compresa l’offerta nazionale. 

È anche vero che alcuni paesi, come Messico e Cile, si stanno già riorganizzando, in caso, a seguito dei dazi, l’aumento dei prezzi al consumo negli USA riduca la domanda per i loro avocadi o le loro ciliegie, per cui – probabilmente – vedremo una maggiore pressione anche sui mercati europei, ma si tratta di prodotti per lo più in contro stagione, che non esercitano sempre una concorrenza diretta, mentre – parimenti – le opportunità che potrà sfruttare l’Italia oltremare saranno ancora più consistenti per la Spagna, grazie alla sua migliore organizzazione e per Turchia e Grecia, per la maggior competitività in termini di prezzi. Se tutto questo dovesse contribuire a ridurre un po’ la pressione di questi grandi produttori sul nostro mercato nazionale, oramai divenuto importatore netto, il nuovo equilibrio potrebbe dare una boccata di ossigeno al rilancio dell’ortofrutticoltura nazionale con un piano di sviluppo, orientato soprattutto sulla parte agricola, falcidiata da clima impazzito e politiche dissennate.

Partiamo dall’assunto che dietro a una minaccia c’è sempre un’opportunità, per vedere il bicchiere mezzo pieno e proviamo a utilizzarla per dare nuovo impulso al settore. Anche perché l’America in questo caso non è la Russia del 2014 per l’ortofrutta italiana, per cui ogni piagnisteo sarebbe fuori luogo, soprattutto osservando l’approccio battagliero che hanno messo in mostra i nostri cugini del vino in questi giorni al Vinitaly. La sintesi è stata: ‘siamo preoccupati ma non spaventati, non si può fare a meno del vino italiano’. Ben detto.