Attualità
Alluvione, si poteva gestire meglio?
Alberatura controllata dei fiumi e casse di espansione tra le buone pratiche da attuare
I danni che l’alluvione sta provocando in Emilia–Romagna sono tuttora difficilmente quantificabili ma il conto sarà sicuramente molto salato. Ogni giorno che passa, nella popolazione colpita una domanda si sta facendo strada con maggior insistenza: si poteva fare qualcosa per evitare questo disastro?
La risposta è veramente complicata e non siamo così presuntuosi da affermare che l'abbiamo in tasca. Sarà compito delle istituzioni fornire tutte le spiegazioni del caso. Tuttavia, ci sono alcuni elementi che se messi in fila possono aiutare - innanzitutto a sgomberare il campo da alcune dicerie che stanno circolando in rete e nei mass media - e in seconda battuta possono contribuire a spiegare cos’è successo in quest’area d’Italia.
Un evento meteo mai visto prima
L’areale romagnolo è stato colpito in appena 15 giorni da due eventi meteorologici particolarmente violenti, ovvero quello di inizio maggio e quello del 16-17 maggio, con accumuli pluviometrici mai visti prima. In questo lasso di tempo, nelle aree più colpite, che vanno dall’appennino riminese alle porte di Bologna, ci sono stati accumuli pluviometrici che hanno toccato punte di 400-500 mm (localmente anche oltre) quando in media in un anno ne piovono poco più di 900.
In pratica in due settimane è piovuta l’acqua di 6 mesi, e già questo ci fa capire la portata dell’evento, che è stato aggravato dalla intensità, come ha spiegato a Meteored Italia Pierluigi Randi, presidente AMPRO (Associazione Meteo professionisti italiani, clicca qui per leggere l’articolo): “Nei due eventi, sono caduti, nelle stesse aree tra i 150 e i 250 mm, quindi due eventi molto simili a livello di accumulo di pioggia, di cui il primo in circa 36 ore e il secondo in circa 30 ore (quest’ultimo, quindi, ancora più intenso)".
Un evento che lo stesso CNR, basandosi sui dati di pioggia degli ultimi 20 anni, definisce come “estremo” e che è reso ancora più eccezionale poiché ha colpito un’areale piuttosto ampio, ovvero, in primis tutta la Romagna (le province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini) e, in minor misura, parte della provincia di Bologna e di Pesaro.
Proprio la vicinanza dei due eventi è stato l’altro elemento che ha contribuito a provocare il disastro, in quanto, se nel primo evento, i terreni erano secchi ed hanno assorbito buona parte dell’acqua caduta (nonostante qualche presunto esperto dica il contrario), dopo due settimane il suolo era ancora saturo di acqua e quindi tutta la pioggia caduta si è accumulata negli invasi presenti sul territorio.
Un altro punto da considerare riguarda il rischio idraulico del territorio, che è direttamente correlato alla geo-morfologia dello stesso. Secondo le valutazioni dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), l’Emilia-Romagna è la prima regione d'Italia per aree a pericolosità idraulica, con tutto il territorio a rischio alluvione: in una regione da 22.500 km quadrati, ci sono 2.600 chilometri quadrati a pericolosità idraulica elevata, 10.000 circa a pericolosità media e altri 10.000 circa a pericolosità bassa.
Difatti, la combinazione di forti piogge ravvicinate in un territorio storicamente sensibile alle alluvioni è stata fatale.
Gestione dei Fiumi e casse di espansione
I dati elencati mostrano che l’acqua caduta in così poco tempo non si era mai vista e questo ha provocato il collasso dei fiumi romagnoli che sono tracimati o esondati l’uno dopo l’altro. Proprio sulla gestione dei fiumi gli animi si accendono. Prima però occorre qualche precisazione.
I fiumi o torrenti (dipende dalla portata annua) portano in mare l’acqua che gli giunge dai rilievi, (in questo caso l’Appennino), mentre i canali situati in pianura hanno il compito di far defluire la pioggia caduta per l’appunto in pianura. Nella fattispecie, i canali hanno effettuato il loro compito egregiamente, grazie anche all’eccellente manutenzione effettuata dai consorzi di bonifica (mentre il fiume dipende dall’autorità di bacino), poiché non ci sono stati allagamenti causati dalle piogge che hanno interessato gli areali di pianura.
I problemi sono nati dalle esondazioni, vuoi per tracimazione vuoi per rottura dell’argine, che hanno interessato quasi tutti i fiumi romagnoli. L’acqua, una volta uscita, segue la pendenza che la porta al mare, e allaga tutto ciò che incontra. Difatti, i canali si sono riempiti tracimando a loro volta e provocando ulteriori allagamenti, poiché non hanno la capacità per gestire l’acqua di un fiume che ha una portata nettamente superiore. Una sorta di effetto domino che tutt’ora non si è concluso in quanto l’acqua è arrivata in zone a pochi metri sul livello del mare e questo rallenta il defluire delle acque generando acquitrini che devono essere pompati dall’uomo all’interno dei canali.
La domanda che molti si pongono è: i fiumi potevano essere gestiti meglio? Il tema è molto complesso, ma su alcuni punti ci sono delle convergenze.
Sicuramente le tane degli animali (istrici, tassi e nutrie) indeboliscono gli argini e possono provocare rotture fatali. L’altro tema riguarda la pulizia dei fiumi. In letteratura gli esperti del settore sostengono che dragare un fiume porti più danni che vantaggi in quanto, per esempio, si rischia di creare infiltrazioni agli argini e di indebolire i piloni dei ponti. Sugli alberi all’interno dell’alveo, invece, se ne sentono di tutti i colori e ci sono due posizioni agli antipodi: quelli favorevoli alla “forestazione” e quelli che invece lo vorrebbero pulito come la canna di un fucile. La via di mezzo, come spesso accade, sembra la strada migliore da percorrere. Infatti, se da un lato un fiume pieno di alberi riduce la portata (si stima anche di 1/3) dall’altro lato se l’acqua scorre troppo velocemente, potrebbe provocare la rottura dell’argine e sviluppare fiumane improvvise a valle. L’ideale sarebbe una “alberatura controllata” che prevede una gestione puntuale e precisa delle autorità competenti.
Arriviamo alle casse di espansione, che non sono altro che degli invasi costruiti per raccogliere l’acqua che tracima dai fiumi durante le piene. Di solito vengono realizzate in pianura e sono di due tipi, contigue ai corsi d’acqua – chiamate anche “in linea” – oppure separate, chiamate “laterali”.
Senza addentrarci nei dettagli tecnici, è in atto una polemica in quanto diversi sostengono che sono state costruite per lo più in Emilia (che ha subito diverse esondazioni negli ultimi decenni) e meno in Romagna.
Secondo un report della Regione, che cita i dati dell’ANBI, l’associazione nazionale delle bonifiche e delle irrigazioni, in Emilia-Romagna ci sono 53 casse di espansione che possono raccogliere fino a 66 milioni di metri cubi di acqua. Il problema è che le casse di espansione previste per il territorio romagnolo o non sono state sufficienti o devono essere ancora realizzate. Inoltre, proprio la loro realizzazione è un problema non da poco a livello politico, poiché occorre espropriare centinaia di ettari per un’opera da utilizzare chissà quando. In sostanza, l’appeal elettorale è molto basso.
In conclusione, un evento del genere difficilmente non avrebbe causato danni anche con i fiumi ben gestiti e le casse di espansione adeguate, però, c’è la buona probabilità che i danni sarebbero stati meno importanti. Speriamo che dall’esperienza così drammatica si sia imparato qualcosa per fare in modo che non accada mai più un disastro del genere.