Non basta dire che fa bene: la frutta deve far innamorare

Dall’Agata (Bestack): “Servono emozioni in aggiunta agli slogan salutisti”

Non basta dire che fa bene: la frutta deve far innamorare

Nel settore ortofrutticolo, la comunicazione è un po’ come la dieta: se ne parla tanto, ma in pochi la fanno davvero. Eppure, durante convegni e tavole rotonde, viene spesso indicata come uno degli strumenti chiave per rilanciare i consumi di frutta e verdura. Come si spiega questo evidente cortocircuito tra dichiarazioni di intenti e concrete strategie operative? Ne abbiamo discusso con Claudio Dall’Agata, direttore del Consorzio Bestack, tra i manager più attenti alle dinamiche comunicative del comparto, se non altro per il ruolo fondamentale che le confezioni hanno nella comunicazione con il consumatore.

“Mancano due elementi fondamentali: il primo sono le risorse”, spiega Dall’Agata. “Senza budget adeguati, che a loro volta dipendono da una massa critica significativa, è impossibile immaginare campagne di comunicazione efficaci. E i numeri parlano chiaro”. Secondo una recente indagine di Freshfel, il settore ortofrutticolo investe 600 milioni di euro all’anno in comunicazione, ma 500 milioni sono concentrati nelle mani dei primi sei grandi brand arcinoti. “Un dato che racconta come la stragrande maggioranza delle aziende comunica poco o nulla”.

Anche i Piani operativi delle OP in Europa, che complessivamente valgono 1,7 miliardi di euro, destinano alla comunicazione solo 30 milioni, ovvero meno del 2%.
“Negli altri settori – aggiunge – le percentuali investite in marketing arrivano facilmente all’8-10%, con punte del 20% nelle telecomunicazioni. Questo dimostra che nel nostro mondo non mancano solo i grandi budget, ma anche una cultura della comunicazione che soccombe nella classifica delle priorità. Le aziende preferiscono puntare su beni tangibili – come nuove varietà o macchine innovative –, mentre la comunicazione resta in fondo alla lista delle priorità”.

Claudio Dall’Agata, direttore del Consorzio Bestack

Prendendo atto di questa situazione, secondo Claudio Dall’Agata diventa prioritario indagare altri ambiti, metodi e modalità per comunicare.
“Il nostro è un settore fatto di tante nicchie di prodotto, spesso altamente profittevoli, che possono essere valorizzate con investimenti sostenibili, a patto di cambiare approccio – spiega –. Serve un salto di paradigma: dobbiamo imparare a trasmettere emozione al consumatore nel momento dell’acquisto, oltre ai soliti messaggi freddi e razionali legati al benessere, ormai dati per acquisiti. Purtroppo abbiamo visto che non scaldano più il cuore e soprattutto non aprono il portafoglio”.

Secondo Dall’Agata, c’è un enorme potenziale nel raccontare l’ortofrutta attraverso le sue radici. “Sono convinto che ci sia grande spazio per comunicare l’emozione di un prodotto vivo, legato alla storia, al territorio e alla tradizione agricola. Ed è qui che entra in gioco anche il packaging: l’abito, in questo caso, fa il monaco”.
A supporto della tesi, cita una ricerca dell’Osservatorio Packaging del largo consumo di Nomisma, secondo cui il 10% dei consumatori sceglie un prodotto in base a quanto è ‘cool’ l’imballaggio e a quanto è curato nell’estetica. “1 consumatore su 10 che ragiona in questo modo è tanto o poco? Io credo sia una nicchia sufficiente, che vale la pena di essere conquistata: d'altronde quale azienda ortofrutticola ha il 10% del mercato? Non è un caso – osserva –. Le confezioni sono touch point strategici: parlano per noi, comunicano identità e rafforzano l’emozione del prodotto. Se sfruttate bene, fanno davvero la differenza nel momento della scelta”.

Ma Dall’Agata invita anche a non commettere l’errore di rivolgersi solo a un pubblico selezionato. “Attenzione, non dimentichiamoci della signora Maria. Fossilizzarsi solo su target ‘fighetti’ sarebbe un errore madornale. Il punto è che, come in tutti i mercati maturi, anche la comunicazione va segmentata. Serve parlare a pubblici diversi, con linguaggi diversi, e lavorare molto proprio sulle confezioni”. “Frutta e verdura sono vendute tal quali. Proprio per questo, l’aspetto visivo e sensoriale del packaging può fare la differenza. Difficile vendere il top di gamma in confezioni non curate e personalizzate, ci sarebbe quanto meno incoerenza a farlo”.

A tirare le fila del ragionamento è lo stesso Claudio Dall’Agata, che chiude con un appello chiaro al settore: “Dobbiamo fare qualcosa per aggiungere, alla scatola del ‘dover consumare per motivi salutistici’, anche la scatola del ‘piacere di farlo’”. In altre parole, serve un cambio di visione culturale, prima ancora che economica: comunicare l’ortofrutta non solo come alimento sano, ma come esperienza sensoriale, quotidiana e gratificante. Solo così, secondo Dall’Agata, sarà possibile riavvicinare davvero il consumatore e ridare valore – anche commerciale – a un comparto che troppo spesso si racconta poco e male, pur avendo tutte le carte in regola per emozionare.
Perché, alla fine, non basta nutrire: bisogna coinvolgere.