Non resta che smettere di produrre fragole

Eurospin buca con le sue iniziative ma su questa china si affossa il comparto

Non resta che smettere di produrre fragole
Mi rendo conto che il titolo è molto provocatorio ma è riferito ad una condizione altrettanto inquietante. Se il 35% degli italiani è convinto che 1,29 euro per 500 grammi di fragole sia il prezzo corretto al consumo alla fine di febbraio e se meno del 3% dei nostri connazionali ha qualche remora a pagare un prezzo così basso malgrado i rischi sfruttamento della manodopera che inevitabilmente ci si porta dietro quando si stressa così tanto la filiera, significa che quanto vado dicendo da tempo sulla irrilevanza del settore per l’opinione pubblica è drammaticamente vero e che, oramai, la necessità di fare un salto di qualità è diventata questione di vita o di morte.



I numeri del consenso popolare dell’iniziativa sulle fragole danno ragione a Eurospin che, seppur sul terreno scivoloso delle vendite sottocosto, persegue la sua mission della “spesa intelligente”. Si può discutere sulla meccanica della promozione, soprattutto alla luce del recente accordo in tema di pratiche sleali fra le sigle del mondo produttivo e quelle della distribuzione – a cui però non aderisce Eurospin – ma il vero problema è il percepito del valore dell’ortofrutta nella testa dei consumatori che non si può cambiare per legge o con un accordo.

La centralità di frutta e verdura nell’alimentazione e nella prevenzione delle malattie, un’enciclopedia di territori e prodotti tradizionali distintivi per il nostro paese, più innovazione di prodotto di quanto siano in grado di ricordare gli stessi addetti ai lavori ci consegnano un paniere di elementi e di valori consistente su cui lavorare, anche se finora sono rimasti solo all’interno di un mondo autoreferenziale che, come dimostra anche questo episodio, non ha sufficienti relazioni empatiche con l’utente finale e, viceversa, solletica nell’immaginario collettivo quasi solo l’aggiotaggio sulle zucchine quando fa freddo nelle zone di produzione.



La miriade di singole iniziative di valorizzazione che ogni giorno raccontiamo sulla rivista incidono pochissimo sull’opinione pubblica, di questo occorre acquisire coscienza. Danno si qualche boccata d’ossigeno ora a questo ora quell’interlocutore in ambito locale e in forma temporanea ma sono come il metadone per chi soffre di dipendenza: aiutano a sopravvivere non a guarire. Per disintossicarsi il settore non può nemmeno fare affidamento esclusivo sul sistema distributivo, che vive anch’esso una cruenta competizione interna da cui fatica a staccarsi anche dove vi sono le migliori intenzioni. Per chi non ci avesse fatto caso, un big mondiale del calibro di Auchan ha dovuto abbandonare il nostro Paese perché incapace di reggere la concorrenza e molti altri gruppi grandi e piccoli sono oggi in palese difficoltà.

In realtà la ricetta per superare questa impasse è tanto semplice a livello strategico quanto complessa a livello operativo e passa dall’incremento del potere negoziale dei produttori sul mercato e dalla loro professionalizzazione. Realizzare aggregazioni rilevanti è l’unica condizione efficace per costringere chi vuole usare l’ortofrutta come specchietto per le allodole a condividere le strategie con i produttori o a rivolgere le proprie attenzioni altrove. Fortunatamente le aggregazioni rilevanti nel mondo ortofrutticolo si possono realizzare grazie a una normativa specifica e a strumenti dedicati ma è necessaria una cultura d’impresa adeguata che è ancora largamente assente nel nostro comparto. Questa è l’unica vera terapia per riconquistare il controllo del mercato e garantirsi una redditività adeguata, se no - in prospettiva - forse vale davvero la pena di pensare a fare altro.

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