Taglio ai fitofarmaci, boomerang per il bio

Ue schizofrenica: ecco i riflessi della riduzione dei pesticidi. E per i produttori non sono buone notizie

Taglio ai fitofarmaci, boomerang per il bio

Agricoltori di tutta Europa chiudete gli ugelli dei vostri atomizzatori: ma che l’Ue voglia ridurre l’utilizzo dei fitosanitari non è una gran novità. Però il taglio fino al 62% dell’impiego dei prodotti chimici ha sollevato la reazione delle principali rappresentanze ortofrutticole nazionali, che hanno spedito al Ministero delle politiche agricole una lettera perentoria per bocciare la proposta comunitaria (clicca qui per leggerla).

Sinceramente vien da chiedersi da dove nasca tutto questo scalpore, visto e considerato che uno dei cardini della strategia Farm to Fork è la riduzione del 50% dell’utilizzo degli agrofarmaci entro il 2030. A quanto pare quel 12% in più ha suonato la sveglia alle istituzioni agricole che si sono messe sul piede di guerra per modificare il regolamento sull’uso dei fitofarmaci, che dovrà essere finalizzato entro 2023.

Forse si pensava che l’Ue fosse più malleabile su questo tema, ma a quanto pare a Bruxelles fanno sul serio ed hanno rimodulato i target per ogni Stato in funzione del consumo – in chili – di principi attivi ad ettaro. E qui casca l’asino. Infatti, così facendo si penalizza in primis l’agricoltura biologica che impiega prodotti come rame e soprattutto zolfo, che hanno un alto dosaggio ad ettaro, essendo prodotti di copertura e non sofisticate molecole sistemiche che necessitano di dosaggi nettamente inferiori.
Siamo alla follia, o meglio alla schizofrenia, se si pensa che l’altro pilastro della strategia comunitaria è il raddoppio delle superfici bio in Europa entro il 2030. Non a caso, il Bel Paese, che ha una delle incidenze più alte di superfici biologiche all’interno dell’Ue, subisce il contraccolpo maggiore in termini di riduzione degli agrofarmaci. Ed è proprio da questo aspetto che monta la protesta italiana.
 

Oltretutto, i dati sul consumo di agrofarmaci non sembrano essere particolarmente precisi e soprattutto non sono stati svolti studi approfonditi sull’impatto che queste norme avranno sulla produzione agricola, già sotto stress a causa del cambiamento climatico, dall’insorgere di nuovi patogeni e dalla crisi geopolitica in atto. Ci sarebbero tutti gli elementi almeno per rimodulare gli obiettivi o posticipare il raggiungimento degli stessi, perché proseguendo su questa linea “verde” senza compromessi, si rischia di mettere in ginocchio un settore già provato.

Le aspettative, onestamente, sono basse visti i trascorsi. Ad esempio un’alternativa potrebbe essere quella di puntare sulle biotecnologie per ottenere in tempi rapidi varietà più resistenti agli stress ambientali e alle malattie (e quindi meno bisognose di trattamenti), ma pure in questo settore non si vedono grandi passi in avanti come dimostra l’enorme difficoltà nel puntare senza pregiudizi sulle TEA (Ogm non possono nemmeno essere citati).

Il rischio che si corre è quello di penalizzare oltremodo i produttori europei, che rischiano di essere “fregati” da un aumento delle importazioni – per le quali si è meno stringenti – per compensare le perdite produttive. Uno scenario degno del miglior Tafazzi, che vede però complici gli stessi produttori (o chi per loro) che in questi anni, pur di non passare per gli “avvelenatori dell’ambiente”, sono stati passivi su ogni scelta in ambito fitosanitario. Un copione già visto con la Gdo che ha creato e poi imposto la certificazione Global Gap, fino ad arrivare all’assurdità dei prodotti a 4 residui di alcune catene europee.

Sia chiaro, è un dovere dell’agricoltura limitare l’input di prodotti chimici nell’ambiente e il produttore è il primo che vorrebbe evitare i trattamenti, in quanto sono un costo non indifferente per l’impresa; ma per ora non è possibile coltivare senza l’aiuto di mezze tecnici. Sembra un’ovvietà per gli operatori ma non lo è per i politici e tantomeno per i cittadini. Si dovrebbe ripartire da qui, dal rimarcare questa consapevolezza, per cercare di adottare politiche sostenibili non solo per l’ambiente, ma anche per i coltivatori.