Made in Italy in Cina, la differenza tra il dire e il fare

Vecchi e nuovi problemi, l’export tricolore parla ancora la lingua dell'improvvisazione

Made in Italy in Cina, la differenza tra il dire e il fare
Sei giorni di missione istituzionale a Shanghai, in Cina, per capire come il gigante asiatico sia pronto – oltre che a soddisfare la crescente richiesta interna - ad affrontare i mercati internazionali. E questo a differenza dell’Italia che anche sul mercato cinese (un immenso bacino di popolazione, forte sviluppo del Pil pro-capite e una crescente attenzione alla qualità) rischia di perdere metri rispetto ai diretti competitor.

Così, da lunedì a venerdì scorso, la delegazione italiana guidata dai vertici di Macfrut ha visitato la prima edizione della fiera Horti China / Mac Fruit Attraction, il mercato ortofrutticolo d’importazione Shanghai Huizhan Logistic e due supermercati, uno locale (Da Run Fa) e uno straniero (Carrefour).

Tornati, tre sono le riflessioni che si possono fare. Intanto, presentarsi uniti in fiera ha dato qualche risultato in più. Gli operatori, infatti, hanno apprezzato la possibilità di scambiarsi reciprocamente le conoscenze utili per organizzare al meglio la propria rete commerciale in Cina, basandosi su affidabilità e serietà dei contatti già “testati” da altri colleghi. In effetti, il clima solidale ha permesso alle 30 aziende italiane di presentarsi agli operatori cinesi in modo compatto. In poche parole, di fare “sistema”.

Il che porta a una seconda riflessione. Nel Bel Paese il fare squadra manca anche “dentro casa”, non solo all’estero. Manca cioè una visione d’insieme che coinvolga tutte le fasi della filiera: dalla produzione alla distribuzione, certo, compreso tutto quello che vi ruota intorno, a cominciare dal mondo della ricerca che dovrebbe essere più coinvolto non solo per l’innovazione varietale ma – ed è solo un esempio – per quel che riguarda le tecnologie post raccolta, dai trattamenti per prolungare la shelf-life dei prodotti, al packaging, fino alla logistica. Della scarsa attitudine alla lobby delle nostre Istituzioni, poi, parliamo sempre.

Insomma, in attesa o in assenza di “tavoli e tavolini” dell’ortofrutta, una task-force operativa potrebbe già avere risolto alcune delle criticità del sistema italiano. Perché, ad esempio, oltre ai kiwi l’Italia in Cina potrebbe esportare anche le arance, che invece sono quasi assenti. E, se tra un paio di anni, il mercato cinese fosse pronto ad accogliere le nostre pere, ecco, allora facciamo in modo di essere pronti anche noi a mandarle in modo organico e massiccio.

Magari dopo avere fatto – e qui sta la terza riflessione – un’approfondita analisi di mercato e attività di promozione. Perché la sensazione - dopo una visita breve, va detto - è che in Cina di pere italiane per ora non si senta affatto l’esigenza.

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