Contro la schiavitù nei campi serve un segnale forte

Lo sfruttamento della manodopera rischia di allontanare ancora di più i consumatori dall’ortofrutta

Contro la schiavitù nei campi serve un segnale forte
Proprio in concomitanza con il lancio della campagna “non sulla mia pelle”, con cui il gruppo Natuzzi denuncia sui media chi produce divani a bassi costi sfruttando la manodopera e generando così concorrenza sleale, l’estate ortofrutticola è stata caratterizzata dall’ennesimo tragico incidente collegato a condizioni di lavoro troppo gravose. E’ accaduto ad Andria prima di Ferragosto, quando una raccoglitrice di uva da tavola è stata stroncata da un malore mentre lavorava sotto un tendone. 

Cosa e come sia potuto accadere lo dirà la magistratura che ha avviato un procedimento sia nei confronti del titolare dell’azienda che del “caporale” che ha reclutato il personale, ma – nel frattempo – i media e la politica si sono scatenati contro la schiavitù delle campagne e le condizioni disumane in cui operano i lavoratori, costretti a turni interminabili, pagati a cottimo con pochi euro per centinaia di kg di prodotto raccolto sotto il sole cocente e a fronte di nessun servizio. Sul banco degli imputati il pomodoro e l’uva da tavola, dopo che gli agrumi erano stati i protagonisti dello scorso inverno.

Il ministro Martina ha addirittura paragonato lo sfruttamento della manodopera in agricoltura alla mafia, guadagnando così la prima pagina dei quotidiani, mentre - come sempre - il settore ha minimizzato parlando di episodi isolati e di casi sporadici. Viceversa, pur non potendo generalizzare, tutti noi sappiamo che il fenomeno è diffuso e in aumento, anche per effetto della ormai strutturale pressione sui prezzi che, pur senza giustificazione, porta gli imprenditori agricoli a ricercare ogni forma di riduzione dei costi, fra cui ricade lo sfruttamento di questi poveri disperati, ridotti a veri e propri schiavi del XXI secolo.


La campagna del gruppo Natuzzi

Quanto sta accadendo non va a mio avviso sottovalutato, poiché l’eco mediatico di queste situazioni rischia di allontanare ancor di più da frutta e verdura i consumatori che, oltre ai famosi ingiustificati rincari dal campo alla tavola, iniziano a vedere ora un’altra macchia dietro all’ortofrutta, ovvero il sangue di tanti poveretti costretti giornalmente a rischiare la vita per sopravvivere lavorando nei campi.

Serve un’azione forte e immediata per arginare questa pericolosa deriva. Non so se la “rete di lavoro agricolo di qualità”, istituita presso l’INPS con il Decreto Legge 91/2014 e attiva dal primo settembre potrà essere una delle risposte, ma è di certo necessaria un’azione anche a livello privato che arrivi fino al consumatore proprio come quella messa in campo da Natuzzi.  Non è infatti più sufficiente garantire sicurezza alimentare e qualità organolettica sui prodotti in vendita, ma occorre anche aggiungere requisiti di eticità sul processo di produzione, come peraltro già avviene sulle banane coltivate in centro America. E’ un bell’esercizio per produzione e distribuzione che potrebbero cogliere l’occasione per riempire davvero di valore quella “integrazione di filiera” di cui tanto si abusa.

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