«Pinolo italiano a un bivio, ecco cosa fare»

Daniele Ciavolino: «Il Paese torni ad occuparsi delle sue pinete»

«Pinolo italiano a un bivio, ecco cosa fare»
Che il pinolo italiano sia sotto minaccia è ormai un dato di fatto. La sua produzione nazionale si è ridotta notevolmente, il cimicione americano è una grana ancora da risolvere e la manutenzione delle pinete italiane un altro nodo da sciogliere. Il pinolo avrà un futuro? Lo abbiamo chiesto a Daniele Ciavolino, terza generazione alla guida dell'azienda di famiglia, realtà campana specializzata nel pinolo che nasce con la raccolta delle pigne nell'area vesuviana per poi intraprendere la lavorazione e la commercializzazione del pinolo.


Daniele, Luana e Camillo Ciavolino

Ciavolino, perché la produzione di pinolo mediterraneo sta diminuendo anno dopo anno?

Da ormai un decennio assistiamo a un crollo produttivo, che ormai ha raggiunto l'80%. In altri Paesi come Portogallo e Turchia la diminuzione non è così marcata, mentre in Spagna è simile a quella italiana. In Portogallo abbiamo una manutenzione delle pinete decisamente migliore di quella italiana e i risultati si vedono. Nella Penisola fino agli anni Settanta c'è stato un processo di rinnovamento delle pinete, che poi si è arrestata. I produttori italiani ormai sono solo una manciata, ci manca forza contrattuale ed è difficile sollecitare i ministeri competenti. Ad influire sulla riduzione produttiva sono poi stati i cambiamenti climatici, la cocciniglia, il cimicione americano, tutti fattori che stanno danneggiando la produzione di pinoli. Non dimentichiamoci che nel pino domestico la pigna matura in tre anni, tre anni di tempo per essere attaccata.

Parassiti, fattori climatici e ambientali. I nemici del pinolo sono molteplici. Ma in Italia quali sono gli areali più promettenti per il pinolo?

Tra i fattori avversi citerei anche l'uomo che non cura più le pinete. Comunque al momento la Calabria è tra le regioni più interessanti, con piantagioni giovani e in montagna: sono quelle che vegetano meglio. Il Sud in generale, con Campania, soprattutto Cilento, Sardegna, Sicilia e Basso Lazio, ha ancora una produzione. Più a nord, dove storicamente si raccoglievano i maggiori volumi,  le produzioni sono molto molto basse.

Che misure si possono mettere in atto per invertire la rotta?

Noi uomini sul clima non possiamo fare molto, ma sulla manutenzione delle pinete sì: quindi attività regolare, la creazione di strisce tagliafuoco per limitare i danni in caso di incendio, e poi il ricambio:  tagliare le piante vecchie e malate, sostituendole con nuovi pini.

E davanti al nuovo scenario produttivo come è cambiata la vostra attività?

Ci siamo estesi in altri Paesi, come Portogallo e Turchia. Se prima acquistavamo solo prodotto italiano, ora ci riforniamo anche con pinoli portoghesi, spagnoli, francesi e turchi. Grazie a questa differenziazione siamo riusciti a mantenere la nostra attività: vendiamo soprattutto a grossisti intermediari e ai grandi confezionatori che servono la Gdo.



Parliamo del mercato del pinolo: i prezzi alti hanno un effetto boomerang sui consumi?

I prezzi alti hanno favorito l'ingresso e l'accettazione del pinolo cinese. Se prima non era ben visto ora lo inizia ad essere, per forza di cose: non solo per un motivo di prezzo, ma proprio per le quantità disponibili di pinoli europei. A livello organolettico le differenze tra il pinolo italiano e quello cinese o pakistano sono notevoli: il nostro è meno oleoso, ha più vitamine e minerali; oltre ad essere esteticamente diverso, con un colore avorio, un odore resinoso e un sapore intenso. Il pinolo orientale solitamente tende al giallo, è meno aromatico ed è tondeggiante. Ma la differenza più grande è il prezzo: quasi la metà.

La pressione del prodotto estero che effetti ha?

Si riduce la richiesta di pinolo mediterraneo. Le difficoltà di rifornimento sono notevoli, i volumi sono scarsi e i prezzi sostenuti. Valori alti ma non tali da darci la marginalità necessaria. Noi ci siamo orientati su quei mercati che richiedono più qualità e sono disposti a pagare di più, come quelli del Centro e Nord Europa: queste piazze apprezzano il prodotto mediterraneo e verso Svizzera, Francia, Austria e Germania le esportazioni sono in aumento.

Qual è la vostra strategia?

Orientarci sempre di più su questi mercati. E anche sugli Stati Uniti: negli Usa comprano tantissimo pinolo cinese, ma c'è un mercato di nicchia che apprezza il nostro prodotto ed è disponibile a pagare di più per il Made in Italy.



Pinoli ma non solo: quali altre referenze trattate?

Il pistacchio in particolare, è un altro prodotto di fascia medio alta che ci sta dando soddisfazione. Ci occupiamo della selezione, della lavorazione e soprattuto della commercializzazione di questa referenza. Stiamo poi aumentando il lavoro con mandorle e nocciole.

Importate anche dall'Oriente? La situazione logistica com'è?

Commercializziamo anche pinolo cinese e pakistano, stiamo riscontrando rallentamenti nelle consegne e nei trasporti, ma le maggiori difficoltà sono legate ai costi, in aumento del 300%, mentre i tempi di consegna sono aumentati del 50%. In Europa, invece, dove i trasporti sono su gomma la situazione è abbastanza regolare.

Per concludere, come vede il futuro del pinolo italiano?

Per immaginare un futuro positivo dovrebbe cambiare la politica forestale del nostro Paese. Un cambiamento in ottica green, puntando sulla natura, sulla rigenerazione delle pinete: lo scenario cambierebbe in pochissimo tempo. Se continuiamo su questa strada le previsioni non sono molto ottimistiche. Non dimentichiamo che in Italia le pinete di pino domestico sono state impiantate non tanto per scopi produttivi, ma per proteggere l'ambiente, soprattutto le fasce costiere, ma anche le zone bonificate o per mantenere il terreno in zone franose. Quindi c'è una valenza paesaggistica e anche ricreativa. Chiediamo alla politica di non lasciare le pinete all'abbandono, ma di mettere in campo una strategia concreta che darebbe beneficio all'ambiente, al turismo e anche alla nostra filiera del pinolo italiano.
 
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