«Ciliegie, rese insufficienti. Riportiamole in quota»

Lugli (Unimore): «Danni climatici? Il fattore ambientale è dirimente»

«Ciliegie, rese insufficienti. Riportiamole in quota»
Se si riporta la lancetta della cerasicoltura indietro nel tempo si scopre un'Italia della ciliegia con il doppio delle produzioni rispetto a quelle attuali, ma anche con rese ad ettaro ben superiori. E' il risultato della migrazione dei ceraseti verso la pianura e verso Sud: la specializzazione degli impianti e l'innovazione varietale, stando ai freddi numeri, pare non aver compensato la forte riduzione degli ettaraggi che, rispetto a sessant'anni fa, sono circa la metà. A metterlo in luce è Stefano Lugli dell'Università di Modena - Reggio Emilia, uno dei massimi esperti di ciliegie in Italia.



Se le rese sono più basse di un tempo vuol dire che c'è qualche cosa che non funziona. Ci sono due fattori che condizionano questo scenario – spiega Lugli a Italiafruit News – Il primo è la tipologia di impianto: quello tradizionale, presente nell'Italia degli anni Sessanta e Settanta, garantiva produzioni più alte e lineari nel tempo, soffrendo meno le crisi dovute all'andamento climatico avverso. Col passare del tempo il Nord ha espiantato ciliegi e il Sud, Puglia in particolare, ha messo a dimora quasi ventimila ettari di ceraseti dagli anni Ottanta ad oggi: questa regione si è sì specializzata, ma puntando su una strategia quasi monovarietale con la Ferrovia, le rese non sono state quelle che si potevano immaginare. Questa ciliegia non è autoctona, ma è la tedesca Schneider che ha un elevato fabbisogno di ore di freddo. In certi areali pugliesi non si raggiungono e se la pianta non accumula freddo poi non allega bene e di conseguenza le rese sono penalizzate. Inoltre Ferrovia necessita di impollinatori specifici, non sempre si usano quelli adatti. L'ambiente di coltivazione ottimale del ciliegio non è la Puglia, ma le aree appenniniche: la pianta è originaria di questi territori ed è stata portata in pianura per comodità di coltivazione solo successivamente”.



Dalla collina alla pianura, una forzatura che, con i cambiamenti climatici di oggi, porta alla luce le problematiche legate alle gelate. “Da alcuni anni il ciclo fenologico del ciliegio, ma anche di altre fruttifere, è modificato – prosegue Lugli – E' vero che la pianta accumula le ore di freddo in inverno, ma per iniziare il suo ciclo ha bisogno anche di ore di caldo: normalmente si raggiungevano tra marzo e aprile, da quel momento la pianta, come si suol dire, iniziava a muoversi. Ora capita che a febbraio il ciliegio inizi questa fase, ma l'inverno non è mica finito e le gelate possono verificarsi proprio nella fase più delicata del ciclo fenologico”.

Ma è possibile sfuggire ai nefasti effetti delle gelate? “In pianura ti devi per forza di cose proteggere – risponde l'esperto – con coperture e impianti antibrina sovrachioma ad esempio. Altrimenti si cambia ambiente: in collina e in montagna, territori supervocati alla cerasicoltura, si possono in parte evitare questi problemi, ma soprattutto questi areali, se irrigui, consentono di impiegare portainnesti nanizzanti o portinnesti rustici se in asciutto a cui servono terreni adatti, ricchi di sostanza organica, e un clima più favorevole senza le calure estive, proprio come quello collinare e montano”.



Bisogna quindi riportare le ciliegie in quota? “E' una prospettiva interessante: ci sarebbero rischi minori e una produzione maggiormente destagionalizzata. Ormai Puglia ed Emilia-Romagna si sovrappongono con i calendari, tutto è concentrato in un mese e mezzo e poi si arriva a fine giugno che non ci sono più ciliegie. I trentini lo hanno capito bene e i loro investimenti nella ciliegia sono anche una bella mossa commerciale”, rimarca lo sperimentatore dell'Unimore che, sul fronte della produzione precoce, spiega: “C'è un limite fisiologico legato alla genetica, più di tanto non si può precocizzare a meno che non si ricorra a forzature come la coltivazione sotto serra, ma poi c'è un'esplosione dei costi”.

Infine c'è un altro fattore da tenere in considerazione secondo Lugli. Quello della qualità. “Tra ciliegie di pianura e quelle di montagna c'è un abisso: l'escursione termica che si ha in quota consente di avere frutti dalla consistenza maggiore e una colorazione migliore. L'alta collina e la montagna, non dimentichiamolo, sono gli ambienti dove il ciliegio è nato e cresciuto. Intanto bisogna migliorare la tecnica di coltivazione, far produrre di più gli impianti esistenti: cambio un impollinatore, una modalità di potatura, copro il ceraseto, inserisco i biostimolanti nella strategia agronomica – conclude Stefano Lugli – Le potenzialità di crescita sono qui, ma bisogna cambiare”.

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