Nuove varietà di mele, sì o no?

Prima puntata: il tema non è se introdurle, ma come proporle

Nuove varietà di mele, sì o no?
Dopo il dibattito che è nato dal mio articolo dello scorso novembre sull'innovazione varietale in atto nella melicoltura nazionale (vedi Italiafruit del 30 novembre 2016), ritorno sulla questione con una serie di approfondimenti per aggiungere ulteriori elementi di riflessione.

Al di là di chi è favorevole tout court all'innovazione di prodotto - argomentandola con la staticità dell'offerta del comparto - e chi è più riflessivo, considerando la difficoltà di produrre e promuovere nuovi prodotti convincenti, vorrei entrare in modo più tecnico sul tema per verificare la reale portata di quanto (inevitabilmente) accadrà perché, sulla scorta degli investimenti già in atto, volenti o nolenti avremo a breve una più diversificata offerta di mele da collocare sul mercato.

Anziché impostare l'analisi dall'inizio - ovvero dagli aspetti tecnici dell'innovazione che oggi stiamo testando a livello agricolo, per poi passare all'ambito commerciale - vorrei cominciare dalla fine, dal consumatore, per il quale "una mela al giorno toglie il medico di torno" e, grazie alla sua praticità, "può essere consumata in ogni occasione durante la giornata". Le due affermazioni, infatti, continuano a ottenere dai mille responsabili acquisti del nostro Monitor Ortofrutta annuale altissimi livelli di consenso mentre, se facciamo vedere agli stessi una foto di una mela bicolore (ad esempio una Gala o una Fuji), pochissimi ci sanno dire come si chiama o, se proponiamo loro un elenco con i nomi delle varietà presentate, sanno fare l'associazione corretta. La mela per gli italiani è certo un prodotto tradizionale ma, per il momento, ancora banale, poco emozionale e altrettanto poco differenziato.

Tante varietà, poca distintività

In verità, che l'operazione di identificazione delle varietà di mele sia molto complessa non è difficile da intuire, basta guardare la foto proposta in apertura che contiene le sei differenti varietà di mele bicolori che ho acquistato in un superstore la scorsa settimana (in realtà una è rossa, ma anche altre bicolori lo sono). Confesso che, senza riferimenti, io stesso non sarei stato in grado di identificarne più di tre. E' sufficiente leggere l'etichetta, direte voi. Certamente, il problema è che, anche se identificate per nome, le varietà di mele hanno per il consumatore analoghe caratteristiche, difficilmente differenziabili in modo netto, soprattutto con la variabilità qualitativa che di norma si registra nel corso di una stagione commerciale.

Infatti, le varietà bicolori sono tutte descritte come croccanti, succose, con un buon rapporto fra acidità e dolcezza, accompagnato da note aromatiche. Per i più, infatti, eccessiva dolcezza e farinosità sono oramai difetti per qualsiasi tipo di mela. In effetti, soprattutto sull'aromaticità, nel corso delle degustazioni comparative che abbiamo condotto, sono state evidenziate differenze fra le diverse varietà che però, se prese una a una, non presentano elementi peculiari sufficienti a generare distintività convincenti.

Il quadro descritto porta necessariamente a una considerazione. L'elevata omonimia di fondo tra le nuove varietà bicolori sarà un ostacolo a una loro valorizzazione basata sul nome, poiché con pochi elementi distintivi facilmente percepibili, l'unica possibilità in questa direzione è la costruzione di una forte immagine di varietà/marca. Per questo, però, servono ingenti investimenti in comunicazione.

Vino docet

Ad esempio, pensando al vino, è certo facile distinguere un rosso da tavola da un Brunello di Montalcino con un semplice assaggio, ma basta sostituire il vino da tavola con una buona riserva di Sangiovese che già in un blind-test fioccano gli errori fra Sangiovese e Brunello. Malgrado queste difficoltà, grazie alla comunicazione - che rende percepibile ciò che non sempre le nostre papille gustative distinguono - la scala prezzi è comunque molto dilatata, con differenze di oltre venti volte fra il Sangiovese meno costoso e il Brunello più costoso. Differenze che, in parte, vanno a coprire i maggiori costi del prodotto di più alta qualità e, altrettanto, servono a finanziare le iniziative di comunicazione per spiegare questo differenziale qualitativo.

La scala prezzi delle mele è, invece, molto più concentrata. Raramente un chilo del prodotto più costoso ha un prezzo due volte e mezzo superiore a quello più a buon mercato nei supermercati e, anche nel canale tradizionale, non si arriva a quattro volte. Se, poi, ragioniamo a parità di calibro, le differente sono spesso risibili. Senza amplificare la scala, le nuove varietà difficilmente potranno contare su risorse adeguate per una comunicazione efficace, con il rischio che vi sia una prevalente cannibalizzazione fra i prodotti, anziché vendite incrementali basate sul differente valore percepito. Da considerare, poi, perché rilevante in questo campo, che le mele sono uno dei pochi ambiti merceologici dell'ortofrutta dove c'è un buon presidio di vere marche, note e apprezzate dai consumatori, con un loro preciso vissuto, che rischia di complicare ulteriormente la situazione.

Se non si potranno reperire risorse sufficienti a comunicare i valori distintivi delle nuove varietà, l'alternativa a disposizione sarà cercare chiavi di segmentazione dell'offerta differenti dai nomi o dalle peculiarità dei nuovi prodotti che risultino più facilmente comprensibili dai consumatori. Con i nuovi parametri di lettura, l'offerta potrà comunque essere ampliata e approfondita proprio con le nuove cultivar, opportunamente selezionate in base alla rispondenza alle nuove chiavi di segmentazione. Di esempi in questo senso, nelle altre merceologie dell'alimentare, i supermercati sono pieni: occasione di consumo, funzione d'uso, proprietà nutrizionali e così via; basterà ispirarsi con intelligenza, anche perché le limitazioni di spazio disponibile saranno il successivo problema da affrontare. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.
 
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