Zoboli: «Più attenzione a cogliere le esigenze del mercato»

Per il manager Infia l'innovazione passa per il binomio packaging/prodotto

Zoboli: «Più attenzione a cogliere le esigenze del mercato»
Dieci anni di indagini del Monitor Ortofrutta di Agroter hanno evidenziato che, per alcune categorie di prodotto, prevale ancora la preferenza verso quelli sfusi. Ma, se questi ultimi sono privilegiati dalle famiglie italiane perché consentono di scegliere di persona frutta e verdura e di acquistarle nelle quantità desiderate, è anche vero che quelli confezionati garantiscono una maggiore velocità e comodità d’acquisto, oltre a maggiore sicurezza in termini di igiene e di minori manipolazioni. Non sembra essere discriminante, per ora, l’impatto che le confezioni – peraltro sempre più orientate alla sostenibilità e al riciclo – possono avere sull’ambiente. Italiafruit News ne ha parlato con Fabio Zoboli, direttore commerciale Infia.

Direttore, quali sono i prodotti che, venduti preferibilmente sfusi, stanno ora trovando una nuova dimensione nel confezionato?

In questi ultimi due-tre anni a livello europeo abbiamo assistito a un forte incremento dell’uso di imballaggi per i più svariati tipi di frutta e verdura. In sostanza, la vendita dell’ortofrutta si sta estremizzando verso due modalità. Da una parte, complice anche la Gdo, il prodotto è visto come una commodity: massimo anonimato, quindi, o marca del distributore. Dall’altra parte, chi - con innovazioni varietali, nuove forme di presentazione del prodotto e costruzione di un brand riconoscibile - cerca di uscire dalla dinamica della vendita legata solo al prezzo. Per quanto riguarda i prodotti commodity, lo sviluppo più importante nell’utilizzo di cestini ha riguardato il mercato dei pomodorini in Europa, dell’uva da tavola seedless a livello mondiale, e le mini verdure o verdure snack, principalmente in Spagna e Benelux.

Il mercato dell’ortofrutta, poi, come tutti i mercati “maturi”, tende ad andare verso una forte segmentazione dell’offerta, anche in termini di tipologia di unità di vendita. E, mentre i prodotti di massa sono offerti in una o due tipologie d’imballo, è sempre più spinta la ricerca di nuove modalità di presentazione dell’ortofrutta, in maniera che il packaging giochi sugli aspetti emozionali che guidano gli acquisti. Grazie a colori, percezione di prodotto salutare e altro, la frutta ha per il consumatore un’intrinseca attrattività la quale, insieme a una presentazione accattivante, può favorirne la vendita.  

La questione sostenibilità e attenzione agli sprechi ha due facce: da un lato, l'impatto ambientale delle confezioni e, dall'altro, la riduzione di spreco di prodotto. Cosa state facendo al riguardo?

Il problema delle risorse e della sostenibilità diventa ogni giorno più stringente. C’è innanzitutto la necessità di ridurre l’impatto degli imballaggi sull’ambiente, ma – aspetto non secondario - è dimostrato che le carenze nella catena di distribuzione e la mancanza di imballaggio comportino lo scarto di una importante percentuale di ortofrutta. In India, ad esempio, si ipotizza che sia gettato più del 30% del prodotto fresco.

In un mondo ideale, la frutta andrebbe venduta a km zero e senza nessun tipo di confezionamento. Nella realtà, questo non è possibile. Come potrebbe essere possibile per un abitante di Milano consumare i pomodorini (non certo un prodotto di lusso) 12 mesi l’anno quando Pachino, ad esempio, si trova a 1.500 km?

Per le caratteristiche intrinseche del settore ortofrutticolo (vedi riduzione dei costi e aspetti logistici), le soluzioni esistenti o in fase di sviluppo, sono tutte rivolte a rendere minimo l’impatto del packaging. Packaging che rimane fondamentale nel poter commercializzare, proteggere, garantire salubrità e ridurre gli sprechi alimentari. Tutti gli imballi prodotti in Italia, poi, sono riciclabili e riciclati attraverso la stessa filiera delle bottiglie di plastica. Pur rappresentando una percentuale molto piccola di questo ciclo, gli imballi plastici per ortofrutta fanno dunque la loro parte in questo ciclo virtuoso.  



Con una quota di export che, nel 2015, ha superato l’80%, Infia vende in oltre 75 Paesi. Quali differenze sostanziali avvisa tra le dinamiche e peculiarità italiane e quelle degli altri attori europei e mondiali?

Anche se non è mai corretto generalizzare, si può dire che in questi anni i produttori italiani sono stati meno capaci di intercettare le richieste del mercato europeo. In alcuni Paesi si è passati dal vendere quello che si produceva, a produrre quello che voleva il mercato. Alcuni nostri concorrenti, sia europei che d’oltremare, ad esempio, già venti anni fa hanno capito che i grandi consumatori europei di uva, una volta provata quella senza semi, non sarebbero tornati indietro. Un altro mercato dove abbiamo grosse possibilità di sviluppo è quello dei piccoli frutti, sia per il mercato interno che per l’export. In tutto il mondo “ricco”, il consumo di questi prodotti cresce in maniera esponenziale. In Italia, a parte pochi virtuosi esempi, le nostre zone di produzione restano marginali nel contesto europeo.

Un’ultima considerazione riguarda un’affermazione sentita a Think Fresh. Si è detto che il consumatore italiano - come tutti gli abitanti dei Paesi produttori di frutta caratterizzati da forte stagionalità - è conservatore rispetto, ad esempio, a un nord-europeo per il quale mangiare una ciliegia importata a dicembre o a giugno non fa differenza. Ma in Spagna, ad esempio, nel giro di pochissimi anni (da quando c’è la possibilità di trovare manghi e avocado di buona qualità grazie alla produzione locale) questi due frutti tropicali sono diventati di consumo corrente. Personalmente credo che anche noi italiani, nel momento in cui sarà possibile trovare nei supermercati nuovi prodotti di qualità, saremo facilmente disposti a cambiare le nostre abitudini.

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