Piva (CCPB): l’equo-solidale sia trattato come il biologico

Piva (CCPB): l’equo-solidale sia trattato come il biologico
Oltre ai prodotti biologici, fra le varie categorie di prodotti che in questi ultimi anni hanno fatto registrare un incremento nei consumi, meritano una particolare attenzione i prodotti appartenenti al commercio "equo e solidale".

Il commercio equo e solidale risponde all'esigenza di dare un giusto "valore" a prodotti che provengono da Paesi a economia in fase di sviluppo dove spesso i prezzi cui vengono pagati non coprono i costi di produzione e pongono le comunità locali in situazione di disagio economico e di progressivo impoverimento, con riduzione degli standard sociali e rischi sulla qualità. Questi prodotti, quindi, non premiano l'impegno dei produttori e vengono esportati in dumping sociale, ambientale ed economico.

L'equo e solidale nasce allora dalle grandi "commodities" quali caffè, cacao, cotone, banane, ed altri, i cui prezzi sono decisi a livello mondiale in borse merci spesso situate in paesi occidentali non tenendo in considerazione le esigenze di una offerta polverizzata e con scarso potere contrattuale.

Lo scopo è quindi predisporre uno standard di produzione e di commercializzazione che garantisca la copertura degli aspetti sociali, ambientali ed economici; una preoccupazione che ha anticipato gli obiettivi di sostenibilità così come da qualche anno stiamo affrontando per la maggior parte dei processi produttivi per ridurre i consumi in materie prime, quelli energetici e le emissioni in gas serra che tante conseguenze hanno in termini di cambiamento climatico. Oltre 1/3 dei prodotti del commercio equo e solidale sono infatti anche biologici e sempre più i consumatori abbinano i due concetti.

Non a caso CCPB è impegnato in questo settore e in differenti direzioni affinché il mercato possa sempre più abbinare il concetto del mercato equo con quello biologico: accanto all'attenzione nei confronti dell'ambiente è sempre più necessario garantire il rispetto dei requisiti sociali minimi che contribuiscono a un equilibrato processo di crescita sociale e che nell'UE sono già previsti nella legislazione vigente. Il rispetto dei requisiti sociali non può essere disgiunto dal riconoscimento di un giusto prezzo che consenta di remunerare tutti i fattori produttivi, in primis il lavoro delle persone, il rispetto dei requisiti ambientali e la possibilità di investire in innovazione e crescita tecnologica.

In questi ultimi anni di profonda crisi economica, il tema della remunerazione dei fattori produttivi si è fatta sentire anche nei paesi ad economia sviluppata quale il nostro, in particolare per molte materie prime agricole: basti fare riferimento a molte tipologie di frutta, fra cui le pesche, e di ortaggi, di cui il pomodoro. Da ciò si evince che il concetto di commercio equo non è più relegato ai paesi in via di sviluppo ma anche a molti altri paesi occidentali. Per questo le organizzazioni del commercio equo e solidale hanno messo a punto programmi atti a garantire che le produzioni più svantaggiate della nostra tradizione agroalimentare possano rientrare in un concetto di "local fairtrade", o meglio di un fairtrade nazionale attraverso cui garantire al mondo produttivo nazionale la copertura di tutti i costi in una logica temporale di medio periodo nel rispetto della sostenibilità sociale e ambientale.

Il concetto che ne sta alla base non è molto lontano dai paradigmi che hanno permesso la definizione del prodotto biologico o che stanno permeando la definizione della sostenibilità nel rispetto degli obiettivi che paesi e organizzazioni sovranazionali, come l'UE, si sono dati da ora al 2020 e al 2050.

Credo che, come già in passato avemmo modo di riflettere insieme, sia importante che siano stabilite regole certe e parametri chiari su cosa si intenda per prodotti del commercio equo e solidale, sia in ambito internazionale che nazionale. Questo lo è ancora di più oggi in una situazione economica in cui il segmento di questi prodotti è in forte crescita. Il consumatore si aspetta che questi prodotti rispondano a una definizione univoca e pubblicamente definita, magari da una legislazione specifica in cui siano anche richiamati i requisiti minimi di controllo e certificazione. Il consumatore è disponibile a premiare questi prodotti ma in una logica di trasparenza e di garanzia dei requisiti che ne definiscono la loro "bontà" socio-economica e ambientale, dando ovviamente per scontato che si tratta di prodotti buoni sotto tutti i punti di vista.

Fabrizio Piva – Amministratore Delegato CCPB